ATTRAVERSO TROPPE FRONTIERE

Il racconto di Bamba, drammatico e rocambolesco, in fuga dalla guerra. Attraverso il Ghana, il Burkina Faso, il Niger, l’Algeria, il Marocco, il Mali, il Senegal, l’Egitto, Israele. Il ritorno a casa, in Costa d’Avorio, e l’arrivo nell’Italia della crisi.

 

Dedicato a chi non ce l’ha fatta, ai morti di Lampedusa.

 

 

 

Mi chiamo Bamba e sono nato il 1° agosto 1986 a Abidjan in Costa d'Avorio. Mio padre è insegnante,  ha 2 mogli e 18 figli, io sono il più grande.

 

Sono andato a scuola 5 anni e dopo ho imparato il mestiere di falegname. A me è sempre piaciuto giocare a calcio così ho chiesto a mio padre di iscrivermi alla Africa Sports National, la scuola di football della più importante società calcistica ivoriana; ho fatto un corso per allenatori e ho cominciato ad allenare la squadra dei bambini più piccoli.

 

Poi è scoppiata la guerra e nel 2003 sono stato costretto a uscire dalla Costa d'Avorio. I ribelli cercavano i giovani per obbligarli ad arruolarsi e combattere per loro: nel mio quartiere la maggioranza era di etnia bété, io sono djoula e quindi era pericoloso per me. Gli altri della mia famiglia sono fuggiti in un villaggio lontano dalla capitale.

 

Sono uscito con un amico, all'avventura: in Ghana, Burkina Faso, Niger. Volevo andare in Libia ma ho avuto dei problemi con i touareg che ti fanno attraversare il Sahara. Ho pagato 200 euro (circa 100.000 franchi CFA) ma loro ci hanno portati in Algeria. Ci hanno messi dentro una automobile Land Cruiser, erano armati di grossi bastoni e per farci stare tutti ci tiravano calci. Dopo un lungo viaggio chiusi lì dentro ci siamo fermati ai piedi di una montagna. Ci hanno fatti scendere e lasciati lì dicendo che oltre la montagna c'era l'Algeria. Si vedevano delle luci che sembravano vicine, ma è il deserto che fa brutti scherzi. Abbiamo camminato per 36 chilometri, senza acqua e senza mangiare, abbiamo scalato la montagna e ci siamo resi conto che quelle luci erano ancora lontane. La città era Tamanrasset, siamo entrati di nascosto, per non farci prendere dalla polizia. Sono rimasto in quella città per due anni, facevo il muratore. Poi la polizia mi ha preso e e mi ha portato in Mali perchè non avevo i documenti. Sono riuscito a tornare a Tamanrasset e da lì fino alla capitale Algeri. Stavo in un quartiere dove c'erano tanti africani neri, ho fatto il calzolaio per un anno e qualche mese e appena ho avuto i soldi sono andato a Ceuta, in Marocco. Volevo passare in Spagna ma la polizia marocchina mi ha preso e consegnato a quella algerina. Sono stato tre mesi in prigione ed espulso ancora una volta in Mali. Ero nel quartiere Magnambougou, non sapevo più cosa fare ma non potevo tornare in Costa d'Avorio. In tutto questo tempo non ero riuscito a sentire la mia famiglia; ho poi saputo che mio padre era andato dal marabut   per consultare les fetiches e sapere se ero ancora vivo. “Perchè non mi chiama” chiese mio padre al marabut; “Tuo figlio vive ancora su questa terra ma non ti può chiamare perchè non ha niente sulla sua pelle” rispose il marabut.

 

Alla fine mi sono deciso di andare a Dakar, in Senegal. Non conoscevo nessuno. Un giorno ho visto un giovane, mi sono avvicinato a lui e gli ho spiegato la mia situazione. Lui ha avuto pietà di me e mi ha portato da sua madre che mi ha accolto in casa sua per un anno e due mesi.

 

A Dakar ho fatto il muratore. Uno che lavorava con me voleva andare in Portogallo, non so perchè. Mi sono lasciato convincere e ho pagato per avere un visto per il Portogallo ma mi hanno fregato e sono scappati con i miei soldi.

 

Ero proprio scoraggiato e nel 2008 ho deciso di rientrare in Costa d'Avorio che in quel periodo sembrava in pace.

 

Mia madre vendeva al mercato e con i soldi guadagnati mi ha pagato il visto per un mese e il biglietto d'aereo per andare in Egitto.

 

Con alcuni fratelli africani volevo andare in Israele. Costa 1000 dollari.

 

E' andata così: ci hanno caricati in 12 su un pulmino e dopo un giorno di viaggio siamo arrivati a un piccolo villaggio. Lì ci hanno nascosti inseme a degli altri, eravamo 40 persone, dentro una benna e coperti con dei teli di plastica perchè la polizia non ci vedesse. Alla frontiera sentivamo la polizia che discuteva con chi guidava il camion: non capivamo quello che dicevano, stavamo fermi e zitti sul fondo della benna, coperti da spessi strati di teli di plastica. I poliziotti sono saliti e con il calcio delle armi premevano sui teli per controllare ma poi ci hanno lasciati passare. Di notte siamo arrivati in un posto dove c'erano tre reti molto alte da attraversare, sorvegliate giorno e notte dalle guardie armate. Abbiamo marciato tutta la notte lungo le reti, ci dicevano che dovevamo attraversare la prima rete ed eravamo in Israele, dovevamo saltare e correre senza fermarci, senza tornare indietro altrimenti le guardie ci avrebbero ucciso. Abbiamo posato scarpe e borse, scalato la  rete e cominciato a correre, la polizia egiziana ha sentito il rumore dei nostri piedi nudi sulla sabbia, hanno urlato alle nostre spalle per dare l'allarme e cominciato a sparare. Uno del Burkina Faso è stato colpito ed è rimasto a terra, due suoi compagni hanno rischiato la vita per tornare indietro a prenderlo e aiutarlo a passare la seconda rete. Il sangue usciva e lasciava una striscia sulla sabbia.

 

Ormai ce l'avevamo fatta: i soldati israeliani ci venivano incontro e ci hanno portati in un grande campo militare. Il burkinabé è morto appena siamo arrivati al campo.

 

Così sono arrivato in Israele e ci sono rimasto quasi tre anni senza documenti. Ho fatto diversi lavori, non stavo male, sentivo regolarmente la mia famiglia. Ho provato anche ad andare verso Gaza, al confine con la Palestina ma era troppo pericoloso, bombe ed esplosioni tutti i giorni.

 

Finchè la polizia mi ha preso un'altra volta, messo su un aereo e rispedito in patria.

 

Era il 2011, la guerra era finita. Ad Abidjan cercavo i miei amici ma mi rispondevano sempre “E' morto, é morto”, qualcuno era fuggito all'estero, altri non si sapeva che fine avevano fatto. La mia famiglia è rientrata nella capitale quando è stato eletto il presidente Ouattara. Mio padre, che era rimasto in città, mi faceva vedere i segni dei proiettili sui muri della nostra casa che per fortuna non era stata distrutta dai ribelli.

 

Ma cosa potevo fare? Dovevo continuare la mia strada. Mi sono sposato con Awa, che conoscevo da quando era una bambina. Lei ha subito raggiunto la sua famiglia che abita da tanti anni a Lecco, da quando non c'era ancora l'euro. Nel 2012 sono venuto anch'io in Italia con il visto regolare.

 

 

 

E' un anno che sono qui, a Lecco non c'è più lavoro per noi, le fabbriche chiudono. Un amico del Burkina Faso era stato a Saluzzo l'anno scorso e aveva lavorato bene, così sono venuto anch'io, a giugno, sotto le tende a Guantanamo. Fino a oggi mi hanno fatto un contratto di 15 giorni per raccogliere le pesche, aspetto le mele e i kiwi poi a ottobre torno a Lecco e continuerò a cercare lavoro.

 

Mia moglie lava i piatti in un ristorante e aspetta il nostro primo figlio. Vorrei che nascesse in Africa, tanto per noi non c'è futuro qui.

 

Quando posso mi compro un furgone Mercedes e torniamo in Costa d'Avorio. Per fare del business, trasportare merci e persone, è un buon lavoro da noi...

 

 

 

(Guantanamo-Saluzzo, 2 ottobre 2013)

 

 

 

Lele Odiardo

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